Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 18 settembre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Quattordicesima
Parte)
In molti
mi hanno esortato a proseguire il mio viaggio nel tempo, durante il quale, cercando
di analizzare la concezione della bellezza, ho trovato tratti distintivi della
psiche e della civiltà di ciascuna epoca. Alcuni mi hanno chiesto di guardare attraverso
lo specchio del secolo seguito all’epoca rinascimentale, per aiutarli a comprendere
cosa sia realmente cambiato, al di là delle caratterizzazioni scolastiche delle
epoche storiche. Ho accolto sollecitamente l’esortazione e la richiesta,
immergendomi nelle immagini dell’arte e nei documenti, per cercare di
incontrare nell’esperienza percettiva e nella coscienza degli atti almeno un
riflesso delle persone reali, dietro le narrazioni della storia e le forme della
storiografia.
28. Un anno all’inizio del XVII secolo
ricco di eventi che rivelano il mutamento delle coscienze. È il 1604
e Michelangelo Merisi detto Caravaggio[1] consegna
la sua Deposizione: un primo piano che porta dal buio alla luce l’assoluto
realismo di un corpo di Cristo sostenuto e quasi sporto verso lo spettatore da
due uomini posti innanzi alle tre pie donne, in una prospettiva così ardita che
nessuna ripresa cinematografica ha mai osato imitare; l’idea complessiva, con
quel braccio caduto che pende rendendo immediato l’effetto di morte, è di
Raffaello, ma l’interpretazione è tale, come sempre nella creatività dei grandi,
che la traccia d’origine non si riconosce più. Soprattutto, avverti che non è
una rappresentazione, ma un fatto che accade: la differenza con tutta la
pittura che si era vista prima è simile a quella che oggi possiamo rilevare tra
una ripresa in diretta dal vero e una scena di un film.
Abilità di disegno, modellato, composizione e colore
superiori a quelle di ogni altro pittore producono un realismo che ti fa testimone
di quella scena, così che dopo averla vista rimane nella tua mente come il
ricordo di un’esperienza vissuta[2].
Non è solo un nuovo traguardo della pittura e la
nascita del gusto estetico per la luce tagliente che rivela all’occhio e
scolpisce nella mente, è la proposta di un’idea di bellezza nuova, creata però da
un uomo che rompe con la tradizione morale della kalokagathia cristiana,
coltivata già in epoca medievale ma pienamente espressa dagli artisti rinascimentali
e manieristi, ossia quell’idea di elevarsi nello spirito per giungere ad una
sintesi di bontà e bellezza interiore da trasfondere nell’opera con il
talento dell’arte che, attraverso il piacere della vista, trasmette conoscenza
e valori trascendenti.
Caravaggio non modella la propria vita su un ideale
morale, aspirando ad eccellere per qualità umane oltre che artistiche, come era
l’agatos della tradizione greca, come Michelangelo Buonarroti che ogni
giorno leggeva un passo della Bibbia e della Divina Commedia per
edificarsi, o come Leonardo che studia la Catena Aurea di San Tommaso d’Aquino.
Michelangelo Merisi eccelle nella virtù tecnica della pittura ed è pertanto un areté,
come lo era Ulisse nel tiro con l’arco, nella guida delle navi o di un esercito,
e tende a primeggiare per raggiungere gloria, fama, ricchezza e rispetto[3]. Anche
se dipinge in massima parte soggetti sacri, il suo rapporto con la religione
sembra esaurirsi in relazioni professionali per ragioni di committenza col ceto
politico clericale; la sua filosofia di vita, improntata al carpe diem, appare
più vicina all’edonismo neopagano che alla sensibilità cristiana. In ogni caso,
la perseverante disciplina di esercizio dell’intelligenza necessaria nella
formazione al raggiungimento della perfezione tecnica, in lui non si è
associata alla cura dello spirito, come era accaduto, sia pure con esiti diversi,
in tutti i grandi dell’epoca precedente.
Caravaggio è immerso in un mondo di passioni, vizi,
lotte, contese e rivalità di ogni sorta, un mondo al quale sente di appartenere
e in seno al quale si coniugano i verbi che possono essere la chiave del suo
successo; è difficile dire quanto la sua personalità sia rappresentativa della
sensibilità del Seicento, ma sicuramente non è accostabile a nessuna di quelle
dei maestri rinascimentali.
Dopo la perdita dell’unità etica dell’Europa, con la
riforma protestante e la controriforma, appare minato il fondamento antropologico
di certezza della fede, e sembra emergere nel ceto intellettuale la necessità di
affrontare in forma problematica, non tanto la verità trascendente su cui si basa
il credo, quanto le forme consolidate di gestione della ragione da parte delle
prassi interpretative religiose, consolidate in oltre un millennio di monopolio
culturale. Abbiamo interessanti documentazioni che provano l’esistenza di un’eterogenea
e composita diversità nel modo di intendere la vita, impensabile fino a cinquant’anni
prima, anche se le coscienze sono ancora immerse in una realtà politica in gran
parte gestita da istituzioni religiose.
Giulia Ammannati è una donna di una profonda
spiritualità, nata a Villa Basilica in provincia di Lucca da un’antica famiglia
guelfa di nobili trascorsi e ora dedita all’artigianato e al commercio del
legname; vive a Firenze, dove le sue virtù domestiche e la sua perfezione come
moglie e madre rievocano un detto popolare che indicava le quattro cose indispensabili
per la felicità familiare: pan di Prato, vino di Pomino, donna lucchese ed
omo fiorentino[4].
Giulia è preoccupata per la salute spirituale del
figliolo che vive a Padova, dove sembra abbia una condotta immorale e, incontrato
Silvestro Pagnoni che lavora con lui nella città veneta, gli confida le sue preoccupazioni,
gli chiede di sorvegliarlo e di indurlo al bene anche col rimprovero o facendogli
avere una reprimenda da un prelato. Noi oggi possiamo leggere le parole di Silvestro
Pagnoni al riguardo: “Ho ben inteso da sua madre che lui mai si confessa et si comunica,
la qual me lo faceva delle volte osservar le feste se andava alla messa, et io
osservandolo, in cambio de andare alla messa andava da quella sua putana Marina
veneziana: sta al canton de Ponte Corbo”[5].
Il figlio di Giulia che, invece di recarsi in chiesa
per la messa andava nella zona appartata di quel ponte curvo sito nei pressi
della porta di Padova dedicata all’illustre concittadino Tito Livio e ricostruita
nel 1517, era Galileo Galilei.
Silvestro Pagnoni era un collaboratore dell’Università
di Padova dove, presso la cattedra di matematica, era lettore l’inventore del
cannocchiale[6]
che, dopo aver enunciato il teorema delle corde e la legge oraria sulla caduta
libera dei gravi, si era reso conto di aver sottovalutato in molti studi l’accelerazione
e di avere una nozione imprecisa di velocità: doveva realizzare gli esperimenti
necessari a dare risposta ai problemi sui rapporti tra pendoli, piani inclinati
e moto libero di caduta, ma vi dedicava poco tempo, secondo Pagnoni, per la sua
vita disordinata[7].
Dunque, con queste ragioni e a quanto pare d’intesa
con Giulia Ammannati che, come risulta dall’epistolario galileiano, è affetta
da una “gravissima infermità, et quasi che mortale”, Silvestro Pagnoni il 21 aprile
1604 si reca al tribunale ecclesiastico patavino dipendente dalla Congregazione
di Roma per formulare una denuncia contro “el signore Galileo Galilei
mathematico pubblico nel Studio di Padova”[8].
È il giorno del quarantesimo compleanno di William
Shakespeare, coetaneo di Galileo, nato solo due mesi dopo e orgoglioso in quell’anno
per la rappresentazione al teatro di corte della sua commedia Misura per
Misura; il 1604 è anche l’anno in cui Keplero scopre l’ellitticità dell’orbita
di Marte. Ma, torniamo al deferimento del matematico pisano.
Una denuncia “a fin di bene” e, infatti, per evitare
qualsiasi rischio di imputazione per eresia, Pagnoni precisa di conoscere bene
il denunciato e di poter affermare che non mostra dubbi nelle cose della fede[9]. Tuttavia,
dichiara che fa oroscopi a pagamento[10], non
partecipa alla santa messa e ai sacramenti per santificare le feste, legge
libri proibiti o disdicevoli e giace more uxorio con una donna di facili costumi.
L’inquisizione di Padova lo diffida per l’attività di
astrologo, trascurando le altre accuse. Alcuni autori non nascondono la loro
meraviglia per questa mite sentenza, ma le spiegazioni sono semplici: la congregazione
a tutela dell’ortodossia non si occupa genericamente dei peccati, perché si è
tutti peccatori e tutti si deve avere la possibilità di pentirsi ed essere
perdonati attraverso il sacramento della riconciliazione; lo stesso Sant’Agostino
era stato lussurioso prima di convertirsi[11]. Le
indagini della Chiesa mirano a identificare i semi dell’idolatria, delle false
dottrine e di ogni contravvenzione del primo comandamento che possa fare
proselitismo.
Enrico Bellone sottolinea che per gli inquisitori non
era grave, lui dice, “estorcere danaro ai clienti”[12],
intendendo l’approfittarsi della loro ignoranza e dabbenaggine nel
corrispondere a una richiesta superstiziosa basata sulla fantasia dello zodiaco
creata in epoche remote guardando le stelle, e dice in tono critico che “non si
ravvisavano i segni della truffa nei confronti di individui particolarmente ingenui,
ma si vedevano gli indizi certi dell’eresia”[13].
Ma non c’è nulla di strano: l’Inquisizione non è un moderno
tribunale penale che deve condannare le truffe; uno dei suoi compiti è individuare
l’esercizio di pratiche idolatre, pagane o superstiziose. Prevedere il futuro
mediante oroscopi rientra proprio in questo genere di attività, che supporta la
credenza popolare secondo cui gli eventi della vita non siano determinati dalle
condotte degli uomini direttamente, o indirettamente attraverso cause seconde di
eventi e circostanze, ma dal potere di idoli astrali, quali le costellazioni
dello zodiaco in rapporto con i pianeti identificati con divinità pagane[14].
In effetti, la forza razionale del cristianesimo è
consistita proprio nel combattere ogni credenza che attribuiva all’intenzione e
al potere di entità immateriali il verificarsi di improvvise fortune o, più
spesso, di disastri, guerre, epidemie, carestie, terremoti e altre calamità naturali[15].
Noi oggi, che sappiamo dai documenti quanto il figlio
di Giulia Ammannati e del musicista Vincenzio Galilei reputasse stolta la credenza
sul potere divinatorio dello zodiaco, ci rendiamo conto che il matematico non
si faceva scrupoli nell’ingannare il prossimo per racimolare quattrini e,
considerato quanto lui tenesse all’identità fiorentina della sua famiglia,
viene spontaneo il paragone con Michelangelo che all’opposto riteneva giusto
non essere pagato dal Papa, pur lavorando dall’alba al tramonto, quando si
esercitava per imparare la tecnica dell’affresco e non poteva ancora realizzare
i dipinti della Sistina[16]. Così
viene anche in mente che a Firenze nel Seicento si studiava Dante, ancora imparando
a memoria l’Inferno, dove il peccato di Galileo è punito nella IV Bolgia
dell’VIII Cerchio[17].
È facile desumere dai documenti che lo scopritore
dell’isocronismo del pendolo non senta per una pratica di previsione del futuro
la responsabilità morale nei confronti del prossimo caratteristica del credente
e, con ogni probabilità, considera il fare oroscopi alla stregua di un gioco,
la cui liceità è data dalla consensualità dei partecipanti, secondo una
logica derivata dalla common law britannica e diffusa in quegli anni dai
filosofi nelle università italiane.
29. L’analisi di documenti e fatti risolve
alcuni enigmi della vita di Galileo Galilei. Il tentativo di comprendere
quale fosse l’etica del matematico pisano comporta la ricostruzione della
distanza esistente tra le sue convinzioni interiori e l’atteggiamento che aveva
nei confronti delle istituzioni religiose. Non tutti sanno che Galileo aveva
studiato in convento, vestendo il saio del novizio vallombrosano nell’abbazia alle
porte di Firenze fino all’età di quattordici anni[18], così
come sono poco note e controverse le ragioni che in età matura lo indussero a costringere
le sue figlie a prendere i voti[19]. In
entrambi i casi si può leggere una pura strumentalità, nel primo caso il padre Vincenzio
Galilei cercava per lui l’insegnamento migliore, nel secondo caso si otteneva l’indipendenza
economica e la rispettabilità sociale.
Le accuse di Pagnoni sono interessanti perché ci
offrono uno spaccato della vita privata di Galileo, dal quale possiamo desumere
alcuni aspetti del suo modo di sentire e pensare circa i rapporti umani.
Gli uomini appartenenti a famiglie come quella di
Galileo se vocati al sacerdozio seguivano la carriera ecclesiastica, se non
avevano la vocazione, nella massima parte dei casi, si orientavano per il
matrimonio con una donna di rango pari o superiore. Da notare che i giovani
ostentavano l’essere entrati nelle grazie di una fanciulla ambita, che già da
promessa sposa poteva con la sua condotta onorare o disonorare l’amato: la
causa più frequente di duelli a quell’epoca in tutta Europa era l’oltraggio all’onore
per un approccio alla promessa sposa o alla consorte o per un’offesa calunniosa
sulla sua probità.
Lo stile e le
forme del corteggiamento fra innamorati non erano tanto diversi da quelle di epoca
rinascimentale, e il giovane, che poteva incontrare l’innamorata esclusivamente
alla presenza della famiglia, per rappresentare la serietà delle proprie
intenzioni ad ogni incontro donava fiori e, se nobile, si faceva precedere da
un paggio che portava alla padrona di casa raffinati oggetti di artigianato,
piccole opere d’arte, curiosità esotiche, giocattoli da esposizione o bambole
artistiche[20].
L’uso di scrivere componimenti poetici per l’amata era in Firenze di ogni classe
sociale, mentre altrove in Italia era tipico di nobili e borghesi; in altri
termini, ci saremmo aspettati di apprendere di un Galileo giovane – e forse se
lo sarebbe aspettato anche sua madre – impegnato a scrivere poesie e a mandare
fiori a fanciulle con le quali poter convolare a nozze, invece lo troviamo quarantenne
a Padova che andava in quel di Ponte Corbo.
Lo stile comportamentale prevalente di quel tempo deriva
dalla visione cristiana del matrimonio come sacramento che salda il patto con
Dio dei due coniugi per costituire una famiglia. Per capire cosa rappresentasse
e come apparisse l’agire di Galileo non avrebbe senso applicare la concezione
prevalente al giorno d’oggi in cui si è costituito l’oggetto della
sessualità artificialmente separato dalla persona e dalle responsabilità,
liberamente fruibile fra consenzienti o acquistabile come si fa con un genere
alimentare al supermercato[21]; un
modo di intendere inedito in migliaia di anni di storia. Infatti, la parte
civile e legiferante delle società dell’antica Grecia e dell’antica Roma in
epoca precristiana aveva già legato l’esercizio della sessualità alla responsabilità
personale e pubblica sancita dal matrimonio. Tradizionalmente è proprio l’assunzione
di responsabilità reciproca tra i coniugi a creare l’alveo entro cui si
sviluppa la coscienza dei figli, e la base di legittimazione
reciproca ha un ruolo essenziale per realizzare nel buon senso ereditato
la razionalità della casa[22].
Possiamo utilmente osservare che costumi sessuali
più liberi, insieme con l’idolatria del danaro e del benessere economico introdotti
a Venezia dai ricchi mercanti tedeschi già un secolo prima[23],
possono aver influito sulle scelte di Galileo, e infatti la Marina citata da
Pagnoni era veneziana; tuttavia, Giulia Ammannati riferisce che già da ragazzo
il figlio aveva avuto comportamenti di quel genere.
Cerchiamo di fare qualche passo in avanti nella
comprensione, perché è frequente che un adolescente commetta leggerezze per intemperanza
e inesperienza, ma se un docente universitario cristiano di quarant’anni sceglie
quel modus vivendi deve quanto meno aver dato a sé stesso una
giustificazione psicologica, magari su una base ideologica se non filosofica,
in grado di farlo sentire nel giusto, in pace con sé stesso, sebbene in apparente
contrasto con il credo e la sensibilità della propria realtà culturale di
origine.
Con l’aiuto dei nuovi documenti trovati da Antonino
Poppi e degli atti emersi dagli studi di archivio di alcuni autori stranieri,
cerchiamo di mettere un po’ d’ordine nei materiali presentati nelle varie biografie
e proviamo a risolvere almeno qualcuno degli enigmi insoluti sulla vita privata
del fisico che introdusse il moderno metodo sperimentale nelle scienze.
La prima questione da affrontare è quella dell’identità
della donna considerata dalla maggior parte dei biografi come compagna di vita
e madre dei figli di Galileo, in una descrizione che sembra quella di una delle
tante coppie di conviventi non sposati dei nostri giorni.
La donna si chiama Marina Gamba, e a questo nome
corrispondono tutte le date e i luoghi della sua vita: figlia di Andrea Gamba, nata
a Venezia e vissuta a Padova dove morì a soli 42 anni il 21 agosto del 1612, come
recita l’atto della parrocchia di San Daniele[24]. I biografi
di Galileo non a conoscenza della sua attività peripatetica, per spiegarsi come
i due si fossero conosciuti, ipotizzarono un incontro avvenuto in uno dei viaggi
del fisico nella città lagunare. L’indicazione del luogo in prossimità del
ponte vicino alla porta della città, nell’accusa di Silvestro Pagnoni del 1604,
fuga ogni dubbio: “…andava da quella sua putana Marina veneziana: sta al canton
de Ponte Corbo”[25].
Si può anche comprendere l’origine di un errore presente
in molte biografie: la bias psicologica, ossia la tendenza inconsapevole
di molti autori ad assimilare il rapporto tra Galileo e Marina a una convivenza
del ventesimo o ventunesimo secolo, ha indotto superficialità nell’interpretazione
dei racconti dell’epoca; così, leggendo che il piccolo
Vincenzio, quando il matematico ritorna a Firenze nel 1610, è affidato a una donna
di nome Marina, si è creduto fosse la madre Marina Gamba, invece era Marina Bartoluzzi.
Fa sorridere che qualcuno, pur di non ammettere l’errore,
si è letteralmente inventato un possibile matrimonio tra Marina Gamba e un tal
Giovanni Bartoluzzi, senza alcuna base documentale o razionale[26]. Le
due identità sono invece ben distinte e non confondibili, anche perché gli atti
principali della vita di Marina Bartoluzzi di cui si ha traccia nei documenti
hanno luogo dopo la morte di Marina Gamba. D’altra parte, l’affidataria di
Vincenzio non intratteneva con Galileo se non rapporti di lavoro e, come
bambinaia, richiedeva compensi elevati, tanto che per pagarla risulta che Galileo
sia stato costretto a vendere un liuto, strumento di alto costo perché la sua
realizzazione richiedeva anni di lavoro artigianale e materiali pregiati.
Un altro argomento che presenta incongruenze e
aspetti oscuri riguarda i figli attribuiti a Galileo.
In tutte le
biografie, inclusa quella di Enrico Bellone, si legge di tre figli nati dalla
coppia, ossia Virginia, Livia Antonia e Vincenzo Andrea, dei quali solo Vincenzio
fu riconosciuto da Galileo, per intervento del Granduca di Toscana. Alcuni
aggiungono che l’incarico come professore universitario lo avrebbe indotto “a
non apparire ufficialmente come padre dei tre bambini” ma “nonostante questa
scelta la famiglia visse unita nella casa di Padova”[27].
Quest’ultima affermazione è smentita dalla cronologia degli eventi noti, ma
anche la giustificazione basata sul ruolo universitario è inconsistente. A
parte che Galileo non era professore a Padova, ma aveva un incarico di Lettore
di matematica[28], il
riconoscimento di paternità, così come un’adozione, era sempre bene accetto e spesso
considerato meritorio, perché costituiva un’opera di carità esercitata con l’assunzione
di responsabilità morale ed economica della tutela, dell’educazione e del
sostentamento di bambini. Si tenevano invece celati quei peccati che costituivano
reato, come l’adulterio o il concubinato.
I documenti chiariscono ogni cosa. Leggiamo l’atto
di battesimo di Virginia nata nel 1600, redatto dal sacerdote: “Virginia, figliuola
di Marina da Venetia, nata da fornicatione il 13 detto [agosto] fu battezzata
da me Gio. Viola”.
È il tipico atto battesimale dei figli delle
prostitute: la madre non è identificata dal cognome, ma indicata col nome di intesa
adottato da colleghe e clienti, “Marina da Venetia”, e
si precisa che la bambina è nata da fornicazione, secondo il significato
proprio del tardo latino fornix, che indicava i locali a volta adibiti a
postriboli o lupanari. Questa forma, oggi diremmo “formato” dell’atto, evitava
di riempire lo spazio dedicato alle generalità del padre. L’atto battesimale di
Livia Antonia, redatto l’anno dopo, il 1601, da padre Clemente Tisato rettore
di San Lorenzo, segue il formato ordinario e dunque lascia in bianco la parte
dedicata al padre.
L’atto battesimale di Vincenzio, nato nel 1606,
cinque anni dopo Livia, presenta poche ma significative differenze: “Vincenzio
Andrea, fio de Madonna Marina figliuola de Andrea Gamba, padre incerto, fu battezato
da me Ang. Parocho”[29].
A questo punto la ricostruzione dei fatti è
semplice: Galileo conosce Marina Gamba come prostituta, già madre di due bambine;
si lega a lei sentimentalmente e la toglie dalla strada assumendosi l’onere del
suo mantenimento e di quello delle figlie. Dalla loro unione nasce l’unico figlio
di Galileo, che avrà il nome di suo nonno, Vincenzio, e sarà l’unico riconosciuto
dal matematico pisano. Quattro anni dopo la nascita del
bambino, padre e figlio vivevano a Firenze, in una città diversa da quella in
cui era la madre. Dunque, anche l’idillico rapporto della coppia e la “famiglia
unita” di cui scrivono alcuni, se mai ci sono stati, sono durati poco[30].
Nell’istanza compilata nel 1619 per ottenere la
paternità del figlio, Galileo deve considerare la principale preoccupazione
dell’epoca, ossia che vi possa essere opposizione alla richiesta da parte di un
consorte legittimo o della madre stessa; non esistendo prove di certezza, come
è oggi l’esame del DNA, si comprende quanto fosse frequente il caso di contestazioni
e controversie giudiziarie per l’attribuzione di un nuovo cognome. Leggendo lo
scritto, notiamo che Galileo precisa che Marina Gamba, morta già da sette anni,
all’epoca della nascita era “soluta” e “non maritata”[31].
Alla luce di questi fatti si può interpretare l’atteggiamento
di Galileo nei confronti di Virginia e Livia: non prende in considerazione la possibilità
di riconoscere delle figlie non sue e, dunque, morta la loro madre, le considera
orfane e trova giusto che seguano il destino più frequente per bambine e
ragazze senza genitori, ossia entrare in convento. Se non si conoscono i
documenti che ho menzionato e si considerano le due bambine, e poi ragazze,
figlie dello scopritore degli anelli di Saturno, riesce difficile spiegarsi
perché le abbia forzate a prendere i voti. E questo è il caso di Sofia Vanni Rovighi
che, nella sua Storia della filosofia moderna e contemporanea[32], non
si spiega il comportamento del fisico toscano, come del resto la pur documentatissima
Dava Sobel[33].
In estrema sintesi, queste due importanti autrici notano
che in contrasto con la visione cristiana della vocazione quale intima e
personale esperienza spirituale della chiamata di Dio alla consacrazione della
vita al suo servizio, Galileo interna le figlie poco più che bambine nel convento
di San Matteo ad Arcetri, obbligandole contro la loro volontà a prendere i voti
al compimento del sedicesimo anno di età. Virginia, che assunse il nome di suor
Maria Celeste, finì per rassegnarsi, accettando la costrizione imposta dal matematico
alla vita religiosa e conservando con lui rapporti epistolari. Livia, divenuta
suor Arcangela, al contrario, non volle più avere alcun rapporto con lui.
Si comprende che Sofia Vanni Rovighi abbia trovato
insoddisfacente la tesi secondo cui il comportamento di Galileo verso quelle
che lei credeva essere sue figlie si giustificasse solo col desiderio di dare
loro una “buona sistemazione” per tutta la vita. Il filosofo della scienza
Ludovico Geymonat, anche lui privo delle informazioni documentali sulle figlie
di Marina Gamba, si esprime con severità nei confronti del più grande astronomo
italiano di tutti i tempi: “…tutto ciò nascondeva un profondo, sostanziale
egoismo”[34].
Il Galileo che emerge dalle tracce documentali non
sembra essere un uomo che per sensibilità e amore del prossimo adotti figlie non
sue; ma non potremo sapere mai cosa realmente sentisse e pensasse[35]. Dopo
aver assimilato lui e la madre di suo figlio a una coppia agnostica, atea o
neopagana dei nostri giorni, molti autori si aspettavano che il matematico pisano
si comportasse secondo uno stereotipo post-moderno di morally correct,
imperante da decenni nella cinematografia ma lontano dai modi di sentire e
dalla cultura del Seicento.
Molti aspetti non possono essere chiariti dai documenti
di cui si dispone, e rimane difficile dedurre l’autentico sentire di Galileo nelle
diverse epoche della vita e nelle tante circostanze commentate dai biografi;
tuttavia, nel tempo sono stati scoperti numerosi elementi nuovi che ci consentono
di sgombrare il campo da costruzioni agiografiche e invenzioni volte ad alimentare
il mito dell’eccezionalità, come nel caso dei biografi che, attingendo tutti
allo stesso autore, lo definiscono musicista virtuoso di vari strumenti.
Galileo aveva ricevuto dal padre, celebre musicista[36], un’ottima
formazione musicale al pari del fratello Michelangelo, che aveva avuto la costanza
di esercitarsi con grande impegno quotidiano fino a seguire le orme paterne; lui
invece non aveva mostrato la stessa disposizione e volontà, come era accaduto
per gli studi medici, che interruppe precocemente per dedicarsi solo alla
matematica[37].
Galileo era un genio della fisica, uno dei più
grandi che la storia ricordi, e i suoi meriti astronomici dipendono strettamente
da questo talento; il suo stesso amore per la matematica è più legato al potere
che questa rivela nelle sue applicazioni che all’apprezzamento per la sua
armonica perfezione teorica. Infatti, la passione gli fu suscitata da Ostilio
Ricci, un matematico incontrato a Firenze che concepiva la matematica come disciplina
finalizzata alla soluzione di problemi legati alla meccanica e alle tecniche
ingegneristiche, secondo la scuola di Niccolò Tartaglia, a sua volta ispirato ad
Archimede.
Lo si è voluto rappresentare come “genio universale”
secondo lo stereotipo rinascimentale di colui che eccelle in tutte le arti alle
quali si dedica, come Leonardo da Vinci, Pico della Mirandola o Michelangelo
Buonarroti, ma, pur essendo dotato di un ingegno multiforme, Galileo è differente
per personalità, concezione dell’Io ideale e modelli da seguire. È interessante
a mio avviso rilevarne le peculiarità, perché alcuni tratti del suo profilo scientifico,
insieme con quelli degli altri grandi della sua epoca, costituiscono il primo
prototipo di scienziato moderno.
Come da tradizione italiana, e fiorentina in particolare,
Galileo coltiva doti sia letterarie che scientifiche, ma rimane estraneo alla
triade pittore, scultore, architetto, soprattutto perché nel
suo tempo non si ritiene più che il disegno costituisca lo strumento di base principale
tanto per l’osservazione della realtà quanto per la realizzazione di manufatti.
D’altra parte, Galileo manca della tensione ad esercitare ogni abilità come un
talento da sviluppare fino alla perfezione: si confronti la sua scrittura
ordinaria con la grafia leonardesca, uno dei tanti risultati di quella articolata
palestra quotidiana del Genio vinciano, concepita come un dovere morale
imprescindibile, e tesa a ottenere qualità ammirevole in ogni cosa.
Galileo era bravo nei compiti grafici e nelle elaborazioni
tecniche quel tanto che riteneva sufficiente per sviluppare le sue riflessioni.
Gli esperimenti richiedevano invece ben altre abilità e realizzazioni, senza
delle quali non sarebbe stata possibile alcuna verifica empirica diretta. Ma il
padre del metodo sperimentale aveva un segreto per risolvere questo genere di problemi.
Il segreto si chiamava Marcantonio Mazzoleni: un magnifico artigiano, tecnologo
impareggiabile che dimorava presso di lui e aveva allestito un’officina in un
locale dello Studio di Padova destinato a laboratorio, dove realizzava ogni
idea o progetto del matematico in forma di oggetti particolari e strumenti di
precisione[38].
Ben presto, Galileo trovò il modo di trarne profitto economico: ideava
strumenti che Mazzoleni realizzava, poi li vendevano e spartivano il guadagno.
L’attenzione al guadagno e l’impegno in attività
remunerate extrauniversitarie è generalmente giustificato dal dover
corrispondere alle richieste della famiglia di origine, ma forse si sottovaluta
un altro aspetto: il suo tenore di vita e, in particolare, la frequentazione di
persone e luoghi d’élite, richiedeva un continuo supporto finanziario extra.
Nell’introduzione di Flora al Dialogo dei
massimi sistemi[39] si coglie la tendenza a impiegare il
paradigma partigiano della biografia dell’eroe per interpretare anche le vicende
della vita privata, e si rileva che, mentre Galileo è impegnato a innovare la
scienza, non è supportato da una “tranquillità di affetti familiari”. Come se l’astronomo
pisano fosse vissuto in un nucleo familiare che lo disturbava creandogli
instabilità affettiva; in realtà, ha condotto la sua vita prevalentemente da
solo, e la madre, che da lontano gli ricordava doveri, responsabilità e impegni
da lui assunti dopo la morte di suo padre, sebbene fosse una vedova ammalata e
bisognosa di cure, non gli aveva mai fatto mancare il suo supporto affettivo. Galileo
nella realtà non ha mai veramente fondato una sua nuova famiglia, che è esistita
solo nelle trame biografiche tessute dalla vena confabulatoria di biografi
narratori che, come abbiamo visto, hanno esercitato la loro immaginazione
creativa senza tener conto dei fatti attestati dai documenti.
La serenità
familiare è in genere il faticoso risultato dell’impegno maturo e responsabile di
due coniugi che profondono tutte le energie di sentimenti oblativi per l’edificazione
del loro rapporto e del rapporto con i figli, e raramente premia chi concepisce
la relazione di coppia come un insieme di occasioni di piacere, che va bene fin
quando si ha coincidenza di interesse nell’incontro di due egoismi.
Nella menzionata
introduzione si rileva anche che lo scopritore dei satelliti di Giove non
gode di valide protezioni. Si può osservare che, come Caravaggio, Galileo è immerso
in un mondo di contese, intrighi, beghe e conflitti in cui è stato sdoganato l’agire
personalistico nutrito dal narcisistico culto di sé quale strumento lecito di
ascesa economica, scalata sociale e conquista del potere, con un conseguente
imbarbarimento che rende merce rara il rispetto dell’altro e porta quasi alla scomparsa
del ruolo di mecenate, che era appartenuto alla maggioranza dei potenti di
epoca rinascimentale. Le protezioni sono in genere epifenomeno di un agire strumentale
e dipendono quindi dal nucleo di interessi della consorteria di appartenenza.
All’interno dell’Università di Padova, Galileo con i
suoi sodali si sentiva inizialmente forte, e dileggiava avversari e detrattori;
senza considerare che nel corso della vita poté godere di sostegno e supporto materiale
di molte autorità, dal citato principe Cesi al Granduca di Toscana. I problemi seri
per l’autore del Sidereus Nuncius cominciano quando il filosofo, poeta e
scienziato Ludovico delle Colombe, con la sua consorteria nota come Lega dei
colombi, ordisce in suo danno una trama della quale dirò più avanti.
Segno dei tempi è una sorta di tacita legittimazione
nel ceto intellettuale di lotte personalistiche prive di giustificazioni ideali,
quali la rappresentazione di valori assoluti, come la verità, la bontà e l’amore,
di interessi comuni o di istanze morali cavalleresche, come la difesa della
donna, della fragilità dell’infante, dell’anziano, dell’ammalato, della persona
priva della vista o di facoltà motorie. Si legge che spesso filosofi, artisti,
letterati e uomini di scienza sono impegnati in un continuo conflitto senza
tregua né quartiere per ottenere l’affermazione personale a discapito di ogni
possibile contendente, senza rispetto per nessuno, senza alcun riguardo per meriti
e talento.
La progressiva perdita nelle istituzioni universitarie
del rigore morale di carattere religioso, che le aveva animate al loro apparire,
è un riflesso della secolarizzazione e del cambiamento generale del mondo
esterno. Come si era sviluppata nell’ebraismo una vuota osservanza formalistica
nel passaggio dal fariseismo aureo a quello decadente, così nella rappresentazione
sociale del cristianesimo seicentesco prevalgono i custodi del formalismo dottrinario
sugli interpreti della sostanza racchiusa nel comandamento dell’amore lasciato
dal Maestro.
Galileo Galilei, se accantoniamo lo stereotipo ottocentesco
dello scienziato laico vittima delle persecuzioni di una chiesa oscurantista, emerge
dalle innumerevoli testimonianze storiche come un uomo che non ha la sensibilità
spirituale e le priorità di coscienza dei grandi del Rinascimento, a cominciare
da Leonardo da Vinci che un secolo prima aveva lasciato traccia e modello di una
coerenza tra esercizio dell’ingegno e alto sentire, ma vive la passione della
conoscenza prioritariamente quale esperienza personale.
In questo senso, possiamo ritenerlo uno degli esempi
dell’esito polimorfo di una mutazione antropologica in cui il paradigma cristiano
dell’uomo non ha più valore ontologico, e la spiritualità può essere considerata
alveo naturale della ragione solo a patto che rimanga pura e non si confonda
con dottrine nate da sviluppi formalistici del pensiero religioso.
Azzardando una semplificazione, che non vuole essere
esaustiva ma credo renda una evidente prevalenza, si può notare che nel Medioevo
e nel Rinascimento la Parola delle Sacre Scritture è intesa nella prospettiva
di Dio, nel Seicento è considerata, sia in seno alla Chiesa sia fuori dai suoi
contesti, come una concezione normativa, un nomos nella prospettiva del “mondo”.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-18 settembre 2021
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Da Caravaggio provenivano i genitori,
lui nacque a Milano, come prova il suo atto di battesimo del 30 settembre 1571.
[2] La Deposizione si poteva ammirare
a Roma nella chiesa di S. Maria in Vallicella, sede dell’Oratorio di San Filippo
Neri; ora è esposta alla Pinacoteca Vaticana.
[3] Andava in giro con un paggio,
come un nobile, e portava la spada al fianco per essere sempre pronto al duello;
dopo aver lavorato 15 giorni, si dava al divertimento per un mese, secondo quanto
narrava di lui il pittore Antonio van Monder.
[4] Gli uomini fiorentini avevano fama,
consolidata dal tempo di Dante al Rinascimento, di artisti geniali e cavallereschi
poeti, in grado di trattar le madonne come regine; le donne di Lucca vantavano
un’antica tradizione di perfezione oblativa secondo il modello mariano e, spesso,
preferivano gli uomini fiorentini agli uomini lucchesi, che avevano sovente un
atteggiamento da padroni, secondo un maschilismo militaresco di tradizione longobarda.
[5] Costruito dai Romani (120-130
d.C.) che lo denominarono Pons Curvus per la curvatura necessaria ad evitare
che fosse invaso dall’acqua del canale, era chiamato Ponte Corbo dal
popolo padovano nel Seicento e poi, come la Porta adiacente, Pontecorvo.
Per la fonte della citazione, vedi nota “7”.
[6] Alcuni affermano che Galileo Galilei
aveva battezzato “telescopio” il suo cannocchiale, altri che la denominazione
sia del principe Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei. Dava Sobel
in La figlia di Galileo. Una storia di fede, scienza e amore (p. 45, BUR
Rizzoli, Milano 2012) riporta che la parola sarebbe stata coniata dal matematico
greco Joannes Demisianos (Giovanni Demisiani) e proposta al banchetto offerto il
14 aprile 1611 dal principe Federico Cesi in onore di Galileo Galilei, quale nuovo
socio dell’Accademia dei Lincei.
[7] Per questa affermazione e per la
citazione commentata alla nota “5”: Antonino Poppi, Cremonini e Galilei inquisiti
a Padova nel 1604: nuovi documenti d’archivio, Editrice Antenore, Padova 1992.
Da sempre
interessato alla vicenda scientifica e umana di Galileo Galilei, dopo aver letto
varie biografie (oltre alle sue opere principali), mi sono reso conto che ben
poco di certo, reale e specifico si poteva desumere sulla sua personalità, in
quanto ciascuno degli autori lo rendeva simile a sé stesso, a un proprio modello
ideale di scienziato o allo stereotipo storiografico preferito. Ho compreso
allora che avrei dovuto provare a interrogare direttamente i documenti e cercare
di sviluppare riflessioni deduttive per ricavarne, per quanto possibile, delle
opinioni personali. Per l’argomento e il carattere di questo scritto ho scelto di
riportare solo qualcuna delle mie interpretazioni.
[8] Citazione del documento riportata
in Enrico Bellone, Galileo: le opere e i giorni di una mente inquieta, p.
34, Le Scienze, Milano 2000.
[9] Cfr. Enrico Bellone, op. cit.,
idem.
[10] Si faceva pagare 60 lire venete
per un oroscopo. Si trattava di una cifra ragguardevole: la lira veneziana d’argento
introdotta dal doge Tron (detta “trono”) era divisa in 20 soldi secondo l’uso
carolingio e pesava 6,52 g. (argento 948/1000). I riferimenti sono desunti dalla
fonte classica dell’Ottocento: Antonio Favaro, Galileo astrologo secondo documenti
editi e inediti. Studi e ricerche, pp. 1-10, Mente e Cuore, VIII,
Trieste 1881.
[11] D’altra parte, come ho notato nel
parallelo tra Leonardo e Giorgione, in Veneto la tolleranza per costumi sessuali
corrotti era maggiore che in Toscana.
[12] Enrico Bellone, op. cit., idem.
[13] Enrico Bellone, op. cit., idem.
[14] Un buon esempio è l’Oroscopo di Agostino
Chigi affrescato da Baldassarre Peruzzi nella Villa Farnesina a Roma, dove i pianeti
e le costellazioni sono personificati come figure mitologiche.
[15] Gli antichi Ebrei attribuivano invariabilmente
ai disastri e alle sciagure, come alle malattie congenite, il significato di punizione
divina. Come ho già altre volte ricordato, Gesù Cristo, riferendosi al crollo
accidentale della Torre di Siloe, smonta questa convinzione erronea: “O quei diciotto
sopra i quali cadde la torre di Siloe fossero più colpevoli di tutti gli abitanti
di Gerusalemme?” (Luca 13, 4).
[16] Michelangelo Buonarroti muore il
18 di febbraio 1564; il 15 febbraio, tre giorni prima, era nato Galileo Galilei.
[17] Galileo conosceva bene l’Inferno
di Dante, al punto che l’Accademia Fiorentina nel 1588 lo chiama per tenere due
lezioni sul tema: figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante.
[18] L’Abbazia
di Vallombrosa è legata alla storia dell’ordalia di San Giovanni Gualberto,
fondatore della Congregazione vallombrosana, che praticò la povertà assoluta e
combatté la simonia e il nicolaismo. Il santo, perseguitato da Pietro Mezzabarba,
potente capo di un esercito mercenario che aveva comprato il titolo di vescovo,
ne diede notizia al Papa, che ordinò un’ordalia, ossia una prova per ottenere il
giudizio divino e stabilire la verità. Giovanni Gualberto nominò quale campione
dei vallombrosani un monaco santo, Pietro Igneo, che passò indenne sui carboni
ardenti, convincendo Papa Alessandro II.
[19] Più avanti troviamo una
spiegazione nell’esame dei documenti dell’epoca.
[20] La classica bambola del Seicento
aveva il capo di cartapesta e il corpo in legno rivestito da abiti in miniatura
di stoffe pregiate; queste bambole erano a volte realizzate in avorio con pietre
preziose.
[21] Nelle varie epoche della storia la
prostituzione è stata proibita, tollerata imponendo limitazioni, tassata, multata,
consentita fuori dalle mura della città, poi considerata un crimine, ecc. La
scoperta recente in Italia di decine di migliaia di studentesse che si prostituiscono
attraverso il web e la deduzione statistica che si tratta della punta emergente
di un iceberg, ci rende conto del degrado di una realtà di prostituzione
di massa che si finge ipocritamente di ignorare.
[22] Come ho ricordato in precedenza,
il solco che circondava la casa, il lirium, era metaforicamente assunto come
limite della ragione; varcare quel solco costituiva un delirare.
[23] Si veda nella Decima parte
di Specchio della psiche e della civiltà al §19 e al §20
in cui si illustrano le ragioni che portarono il Papa a scomunicare Venezia.
[24] Prima del ritrovamento del testo
dell’accusa di Pagnoni e di altri documenti, si trova menzione del suo rapporto
con Galileo nei racconti biografici; tra questi, la traccia più antica che ho
trovato risale al 1793: “Per quanto credo essa fu Veneziana; si chiamava Marina
di Andrea Gamba…” (Giovan Battista Clemente Nelli, Vita e commercio letterario
di Galileo Galilei, nobile e patrizio…, Vol. I, p.98, 1793).
[25] Cfr. Antonino Poppi, Cremonini
e Galilei inquisiti a Padova nel 1604: nuovi documenti d’archivio, Editrice
Antenore, Padova 1992.
[26] Della
goffa invenzione del matrimonio con Bartoluzzi si dice anche nella biografia
di Marina Gamba pubblicata nel 2008 per conto dell’Istituto e Museo di Storia della
Scienza (Museo Galilei) in Piazza dei Giudici 1, in Firenze. Se non diversamente
specificato o quando provenienti da fonti documentali dirette, le notizie da me
riportate su Marina Gamba si intendono riprese da questa fonte.
[27] Citazioni dalla scheda biografica
su Marina Gamba dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (Museo Galilei).
[28] Alla pagina 50 dell’opera citata
di Enrico Bellone si riporta una riproduzione fotografica leggibile del documento
col quale lo Studio di Padova nel 1609 rinnova l’incarico di Lettore di
matematica ricoperto negli anni precedenti da Galileo Galilei, riconoscendogli
uno stipendio annuo di 1000 fiorini.
[29] Come le parole dell’atto battesimale
di Virginia, sono tratte direttamente dal documento; il lettore le può facilmente
riscontrare nella biografia di Marina Gamba presso l’Istituto e Museo di Storia
della Scienza (Museo Galilei).
[30] Se sicuramente nel 1604 Galileo andava
a incontrare Marina per strada e nel 1610 il rapporto era già finito perché lui
si trasferisce da solo a Firenze e toglie il figlio di quattro anni alla madre per
affidarlo a Marina Bartoluzzi, non si capisce da cosa si deduca una “famiglia unita”.
[31] Citazioni dalla scheda biografica
su Marina Gamba dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (Museo Galilei).
[32] Cfr. Sofia Vanni Rovighi, Storia
della filosofia moderna e contemporanea, Editrice La Scuola, Brescia 1976.
[33] Cfr. Dava Sobel, La figlia di
Galileo. Una storia di fede, scienza e amore, BUR Rizzoli, Milano 2012.
[34] Ludovico Geymonat, Galileo Galilei,
p. 72, Einaudi, Torino 1983.
[35] Per poter azzardare qualche deduzione fondata dovremmo disporre di materiali
significativi, come un diario psicologico o una narrazione autobiografica.
[36] Musicista liutista, compositore
e musicologo, pubblicò numerose opere teoriche, fra cui: Dialogo di Vincentio
Galilei nobile fiorentino della musica antica et della moderna (Fiorenza MDLXXXI).
Fece scoperte nel campo della fisica acustica: stabilì una relazione tra la tensione
di una corda e la frequenza della sua vibrazione, osservando la non linearità,
anche se non la formulò come legge fisica.
[37] Come sa chiunque abbia studiato
uno strumento musicale, per suonare a buoni livelli un solo strumento, indipendentemente
dal talento innato, è necessario un esercizio quotidiano di varie ore. Suonare
da virtuosi più strumenti non lascia tempo per altro nella vita. Altra cosa è
suonare per diletto qualche brano al liuto in compagnia di amici. Bellone, in
rapporto agli studi universitari, definisce Galileo “studente svogliato” (Enrico
Bellone, op. cit., p. 14).
[38] Mazzoleni apparteneva alla parrocchia
di San Daniele in Padova, dove fu registrato l’atto di morte di Marina Gamba.
[39] Galileo, Dialogo dei Massimi
Sistemi (a cura di Ferdinando Flora), Introduzione, pp. V-XIX, Grandi Classici
Mondadori, Milano 2007. Il titolo originale che si legge sul frontespizio dell’opera
è questo: Dialogo di Galileo Galilei Linceo Matematico Sopraordinario […]
sopra i due Massimi Sistemi del Mondo Tolemaico e Copernicano […] in Fiorenza
per Gio: Batista Landini MDCXXXII.